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XXXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A


La parabola dei talenti

Vangelo


In quel tempo, Gesù raccontò questa parabola ai suoi discepoli: 14 “Un uomo partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. 15 A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. 16 Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. 17 Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. 18 Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. 19 Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. 20 Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: ‘Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque’. 21 ‘Bene, servo buono e fedele’, gli disse il suo padrone, ‘sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone’. 22 Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: ‘Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due’. 23 ‘Bene, servo buono e fedele’, gli rispose il padrone, ‘sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone’. 24 Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: ‘Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; 25 per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo’. 26 Il padrone gli rispose: ‘Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 27 avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. 28 Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 29 Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. 30 E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti’” (Mt 25, 14-30).


Una via sicura per la salvezza eterna


I servi fedeli trascorrono tutto il periodo d’assenza del loro padrone servendolo con serietà e sospirando in attesa del suo ritorno. Al suo arrivo, sapendo che li vuole vedere, gli vanno velocemente incontro. Il servo infingardo, al contrario, lo accusa di essere ingiusto. Il suo modo di fare si erge, così, a paradigma del comportamento dei peccatori che cercano di giustificare le proprie colpe, attribuendo a Dio la causa delle stesse.


I – Serietà in tutti i nostri atti


Nella parabola dei talenti – come in quella delle vergini sagge che la precede e con la quale forma un insieme coerente – Gesù ci insegna la via della felicità eterna. Entrambe iniziano con una analogia: “Il Regno di Dio è simile a…” (Mt 25, 1). Infatti, parabola, nella lingua greca, significa: comparazione. Il capitolo precedente del Vangelo di San Matteo, precedendo questi due passaggi, ci riporta la descrizione della fine del mondo, pronunciata dalle labbra dello stesso Salvatore. Anche la conclusione avviene tramite una parabola, quella del “servo malvagio”, respinto e gettato nel luogo dove “ci sarà pianto e stridore di denti” (Mt 24, 51).


Nuova ottica per la parabola dei talenti


Nel passo del Vangelo di questa domenica immediatamente precedente a quella di Cristo Re, ultima dell’Anno Liturgico, gli esegeti sono soliti sottolineare il conto che, alla fine della vita, ognuno di noi dovrà rendere a proposito dei “talenti” ricevuti da Dio. Gli insegnamenti di Gesù, tuttavia, sono di una ricchezza inesauribile e possono essere contemplati da un’infinità di punti di vista. Uno di questi – e molto importante – è la serietà con la quale ogni uomo deve cercare di assolvere il compito o esercitare la funzione che gli è stata affidata, soprattutto, se questi sono stati comandati, non da un padrone terreno, ma dallo stesso Dio.


Serietà nel vedere, giudicare e agire


La rapidità frenetica della modernità rende difficile la riflessione sugli avvenimenti quotidiani. Di qui il fatto che l’uomo contemporaneo tende alla superficialità di pensiero e a non analizzare in profondità le conseguenze, buone o cattive, dei propri atti. Ora, tutto in questa vita è serio, poiché siamo creature di Dio ed è in Lui che “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17, 28). Così, il più banale dei nostri atti ha una relazione con realtà altissime e può arrecarci gravi conseguenze o porci di fronte ad onerose responsabilità, se non è eseguito come si deve. Per questo, esercitare seriamente una funzione, esige da parte nostra, in primo luogo, una completa obiettività. È necessario vedere la realtà come essa è, senza veli né preconcetti, e senza permettere che sia distorta da ansietà o frenesie. Da questa coerenza di visione e giudizio, emanerà la serietà nell’agire. Quello che si deve fare deve essere cominciato subito, eseguito per intero, senza perdita di tempo e senza interruzioni inutili.


Siamo alberi i cui frutti sono poveri, raggrinziti e, frequentemente, marci


Non dimentichiamo che senza l’ausilio della grazia, la natura umana è incapace di praticare stabilmente la propria Legge Naturale e perfino di fare qualcosa di meritorio per la salvezza eterna.1 Per la nostra natura decaduta, siamo alberi i cui frutti sono poveri, raggrinziti e, frequentemente, marci. Solo quando la linfa della grazia circola con forza nel fusto e nei rami di quest’albero, raggiungendo perfino il fogliame più distante dalla radice, produciamo frutti abbondanti e buoni.


II – Il Signore distribuisce i suoi beni e divide


In quel tempo, Gesù raccontò questa parabola ai suoi discepoli: 14 “Un uomo partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. 15 A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì”.


Prima della partenza del padrone, i tre servi della parabola non possedevano niente, mentre al momento di partire egli mise nelle loro mani tutti i suoi beni: otto talenti in totale. Si trattava di una fortuna considerevole, poiché il talento non era propriamente una moneta, ma una misura di valore equivalente a un lingotto d’argento di 26 chili circa. L’insieme di questo tesoro quindi, corrispondeva complessivamente a 208 chili del prezioso metallo.


La parabola dei talenti

Tutto quanto abbiamo viene da Dio


Su questo aspetto della parabola troviamo già un’applicazione per la nostra vita spirituale. Ognuno di noi è un servo di Dio che, di per sè, non ha nulla. Nell’ordine della natura, riceviamo dal Creatore l’essere che Egli ha ideato per noi fin dall’eternità, munito di determinati attributi e doni. Insieme all’esistenza, Egli ci ha dato anche tutti i beni necessari, tanto materiali che spirituali. Dai nostri genitori riceviamo la generazione umana, ma non l’anima, che ci è infusa da Dio stesso ed è elevata alla vita soprannaturale per mezzo del Battesimo. A partire da questo momento, il ricco lascito di Cristo per la sua Chiesa rimane direttamente e immeritatamente a nostra intera disposizione: la sua dottrina, i Sacramenti, le grazie, i benefici decorrenti dai suoi meriti, ecc.


I doni sono distribuiti in forma diseguale


Conviene anche sottolineare che, distribuendo i talenti tra i servi, il padrone della parabola lo fa in forma diseguale: ad uno ne dà cinque, all’altro due, al terzo uno. Come padrone, egli può ripartire la propria fortuna nel modo che reputa migliore e, in questo caso, diede a ciascuno “secondo la sua capacità”. Di fronte a questa disparità, i tre servi agiscono bene. Gli ultimi due non reclamano per il fatto che sia stato dato di più al primo; quelli che hanno di meno non sono invidiosi di chi ha ricevuto di più, e costui non disprezza gli altri due. Sanno chiaramente che tutto è del padrone. Sono puri e semplici amministratori, ed ognuno dovrà render conto in proporzione al valore che gli è stato affidato. Non c’è l’invidia a motivare lamentele o, meno ancora, rivolte. Così dobbiamo fare anche noi che siamo servi del Signore Nostro Dio. Nel ricevere da Lui doni, non dobbiamo chiederci se gli altri hanno ricevuto di meno o di più, ma impegnarci a restituirGli nella forma più completa, secondo le nostre capacità, rimanendo sempre pronti a render conto di questi talenti e chiedendoci frequentemente: “Cosa faccio con i benefici che ho ricevuto da Dio?”.


Dio concede i doni in funzione della propria gloria


Dio, distribuendo i suoi doni tra noi, suoi servi, non si attiene a criteri umani, ma lo fa secondo il suo beneplacito, mirando alla propria gloria. I doni naturali o spirituali che Egli ci concede non vengono regolati dai nostri desideri, abilità o meriti. Al contrario, Dio ci fornisce le qualità in funzione della gloria che ci ha riservato nel Cielo. Così, la nostra intelligenza, volontà e sensibilità, la nostra mentalità ed il nostro carattere ci sono dati in funzione del trono che dobbiamo occupare nell’eternità. La nostra natura ed il nostro spirito sono da Lui preparati per ricevere i doni sovrannaturali con cui vuole ornarci, e tutte le grazie e benefici con i quali Lui ci riempie nel corso della vita sono orientati nello stesso senso.


Dio, facendoci suoi figli adottivi, ci chiama ad essere manifestazioni di Se stesso, come a partecipare della sua gloria. Per questo, San Paolo dice ai Corinzi: “E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell’unico Spirito; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro le varietà delle lingue; a un altro infine l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose è l’unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole” (I Cor 12, 7-11).



San Paolo

Siamo membri di un solo Corpo


Subito dopo, l’Apostolo aggiunge: “Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo” (I Cor, 12, 12). La Chiesa, infatti, forma un Corpo nel quale ogni membro ha una funzione differente. Dio adatta le grazie alle diverse funzioni ed esige che ognuno si applichi, nella sua finalità specifica, in questo Corpo Mistico. Dice San Paolo: “È lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo” (Ef 4, 11-12). E San Pietro esorta: “Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio” (I Pt 4, 10). Ognuno di noi ha, pertanto, una missione specifica. Non possiamo volere – per egoismo, o per ambire ad una funzione che non ci è stata attribuita – pregiudicare l’armonia di ciò che Dio ha creato nella sua infinita Sapienza.


III – Assenza del Signore


16 “Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. 17 Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. 18 Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone”.


Il padrone divide e, “subito”, il primo servo si mette all’opera, indicandoci chiaramente che non dobbiamo mai perdere tempo nel servizio del Signore. A partire dal momento in cui riceviamo l’uso della ragione, dobbiamo dedicarci alla causa di Dio e lavorare unicamente per questa. Nel momento in cui ognuno di noi si rende conto di quale sia la sua missione specifica e quali siano le responsabilità ad essa inerenti, deve cominciare ad agire senza indugio, utilizzando tutti i doni che la Provvidenza gli ha dato per compiere tale missione in questa vita.


Amore verso l’autorità che dà l’incarico


È necessario – come abbiamo visto anteriormente – che, nell’assumere una funzione o nell’essere incaricati di un compito, lo svolgiamo con senso di responsabilità, con serietà e diligenza. Ma non solo.


Più ancora dell’obiettivo concreto del nostro lavoro, considerato in se stesso, dobbiamo amare la legittima autorità che ci ha dato l’incarico, soprattutto quando si tratta di un superiore religioso. In questo caso, la nostra responsabilità smette di essere meramente materiale per elevarsi ad un livello più alto, in cui l’amore per il superiore deve essere il motore efficace e dinamico nell’esecuzione del compito. Il buon andamento del servizio e la stessa realizzazione dell’obiettivo proposto saranno in funzione di questo amore. Allontaniamo da noi l’equivoco di giudicare che solo i monaci, i sacerdoti o le religiose di un istituto di vita consacrata si trovino in questa situazione. Qualsiasi semplice fedele, obbedendo al Papa, al Vescovo o al parroco, o a qualunque altro legittimo superiore, nella famiglia o nella società, deve essere mosso fondamentalmente dall’amore per l’autorità, istituita dallo stesso Dio.


Restituire a Dio per dovere di amore e di giustizia


Quando chi ci impone un obbligo non è un’autorità terrena, ma il Signore per eccellenza, lo stesso Dio, l’amore con cui la eseguiamo prende il carattere di suprema importanza. Per amore e per dovere di giustizia, a Lui dobbiamo ogni obbedienza. È da Lui che provengono il nostro essere, l’intelligenza, la volontà, la sensibilità e tutte le doti naturali. E, soprattutto, dal Signore Gesù ci viene la Redenzione, di un valore infinito, e con lei la grazia, dono che nessun talento umano è capace di meritare.


Il padrone trascorse molto tempo fuori


19 “Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro”.


Nelle parabole del Divino Maestro nessun dettaglio è casuale. Le circostanze, persino le minime sfumature della narrazione, sono disposte dalla sua assoluta sapienza, per il nostro bene. Così, ci soffermiamo un istante ad analizzare l’indicazione di Gesù sul molto tempo che il padrone trascorse lontano.


Durante questo prolungato viaggio, i servi che più avevano ricevuto, non furono presi dalla pigrizia né dal disamore. Al contrario, mantennero una piena fedeltà durante l’assenza del loro padrone, perseverando ottimamente e facendo fruttificare, quanto era loro possibile, i talenti ricevuti.


Quali le conseguenze di questo insegnamento?


Immaginiamo che ognuno di noi sia chiamato a vivere per soli sei mesi con un intero uso della ragione. In vista di questa brevità, faremmo tutto il possibile per presentarci al Tribunale Divino col massimo dei frutti, provenienti dai doni ricevuti. Programmeremmo attentamente il ricevimento dei Sacramenti, prenderemmo tutte le misure opportune per allontanarci dalle occasioni di peccato, cercheremmo di crescere in zelo e pietà durante questo breve periodo di progresso verso l’eternità. Invece, la maggioranza degli uomini è chiamata a vivere su questa Terra un tempo relativamente lungo, o che gli sembra lungo. Per questo, il fervore iniziale con cui l’uomo intraprende la via del Regno del Cielo tende a non essere duraturo.


Riceviamo una grazia e l’entusiasmo ci pervade, intraprendiamo un’opera con tutta l’energia per coronarla, assumiamo una funzione facendo i più bei propositi… ma questo primo impulso, molte volte, non dura. Arriva il momento in cui il fervore iniziale comincia a venir meno. Diventiamo consapevoli dell’assenza del padrone, per così dire, nella vita quotidiana, e cominciamo a non renderci conto di quanto distante sia colui che è partito. A questo punto degli avvenimenti, sparisce la forza che il padrone irradia con la sua semplice presenza. Nel compimento degli obblighi che egli ci ha lasciato, ormai non è di stimolo neppure la considerazione di un suo ritorno repentino e immediato. Questa sensazione d’indugio ci colloca nel grave rischio di dimenticarlo.


Così succede a chi abbraccia la vita religiosa. All’inizio, sente un entusiasmo capace di abbattere tutti gli ostacoli e vincere qualsiasi difficoltà; questo è il “fervore del novizio”, cosiddetto per essere caratteristico di chi è appena entrato nelle vie della perfezione. Qualche tempo dopo – più lungo per gli uni, meno lungo per gli altri –, si allontana lentamente la visione primaverile che ha incantato il religioso all’inizio della sua vocazione, e quel primo entusiasmo comincia a diminuire. Sorgono allora le difficoltà. Immerso nel lavoro quotidiano, gli pesa la monotonia della vita di tutti i giorni. Se egli non lotta contro questa difficoltà, finirà per dimenticarsi della gloria di Dio, degli interessi della Chiesa, alla quale ha consegnato la propria vita, e del beneficio della propria anima.


Questo fenomeno non capita solo alle anime consacrate. Quante volte succede anche a chi ha appena ricevuto la Prima Comunione, o la Cresima, o ha concluso un periodo di formazione religiosa! In queste occasioni, non pochi possono sentirsi pervasi da un fervore simile a quello del novizio. Per costoro, la prospettiva di una vita lunga può veramente venire a costituire un grave ostacolo a che il fervore iniziale continui a rimanere acceso!


IV – La ricompensa ed il castigo


20 “Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: ‘Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque’. 21 ‘Bene, servo buono e fedele’, gli disse il suo padrone, ‘sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone’. 22 Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: ‘Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due’. 23 ‘Bene, servo buono e fedele’, gli rispose il padrone, ‘sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone’”.


Da come i due servi fedeli si avvicinano, possiamo discernere una specie di impazienza, di santa ansietà, da parte loro, per l’arrivo del padrone. Si nota che avevano passato tutto il tempo della sua assenza sospirandone il ritorno. Sentendo che lui li chiama, gli vanno celermente incontro perché capiscono che è giunta la fine delle loro pene, fatiche e sforzi. Accorrono subito e senza alcun indugio. Che cosa dovrebbero temere da un padrone che hanno sempre amato e per il quale hanno sempre lavorato?


Questa è la situazione degli uomini che, durante la vita, hanno operato con serietà e diligenza, utilizzando tutto il loro tempo al servizio del Signore. Se essi hanno compiuto egregiamente il loro dovere e saputo valutare, perfezionare e ringraziare per i doni ricevuti da Dio e ne hanno fatto buon uso, non avranno difficoltà alcuna a lasciare questa vita e passare all’eternità. La morte li troverà gioiosi e desiderosi di regolare i conti con Colui che ha dato loro tutto. Di fronte alla prospettiva del jiudizio, non sentiranno timore, ma una santa avidità di andare a godere eternamente della presenza del loro Signore. Noi, che ora consideriamo questa parabola, non potremmo fermarci a fare un breve esame di coscienza? Quanto ci sforziamo noi per far fruttificare i doni che Dio ci ha dato per la sua gloria? Ci mettiamo, come si deve, al suo servizio o a servizio del nostro egoismo? In che misura la nostra riconoscenza, le nostre lodi, il nostro amore per Dio corrispondono a tutto quello che Lui ha fatto per noi?


Cerimonia del Battesimo

Necessità di restituire i talenti ricevuti


Consideriamo, ora, il bel gesto dei servi, che riconoscono che tutto appartiene al padrone e che non si appropriano di nulla: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. […] Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due”. Lungo il corso della nostra vita, Dio non smette di concederci “talenti”. Nel Battesimo, riceviamo il dono per eccellenza che è la grazia santificante, partecipazione creata nella vita increata di Dio. A questa, per pura liberalità divina, si aggiungono grazie attuali ordinarie, operanti e cooperanti, ed anche grazie attuali straordinarie, che la Provvidenza concede in circostanze speciali.


Di fronte ad una tale profusione di talenti, dobbiamo riconoscere, con gratitudine, che tutti questi doni appartengono a Dio, e quando da questi “ne ricaviamo lucro” praticando una buona opera, dobbiamo saper vedere, con umiltà, quanto il merito di quest’atto provenga da Dio. Come i servi fedeli, dobbiamo restituire a Dio tanto i “talenti” ricevuti, quanto quelli guadagnati con i nostri atti di virtù.


La ricompensa dei servi fedeli


I servi fedeli della parabola hanno duplicato la somma ricevuta dalle mani del loro padrone, mostrando come il lavoro fatto con diligenza, con amore, con responsabilità, finisca per essere coronato dal successo. “Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. La serietà con cui entrambi si sono comportati merita dal loro padrone un identico e bellissimo elogio, il quale evoca ciò che riceveranno dallo stesso Dio quanti hanno proceduto bene durante la propria esistenza terrena.


La risposta del padrone – “ti darò autorità su molto” – ricorda anche un’altra verità importante: chi corrisponde alle prime grazie, è generalmente beneficiato da altre ancora maggiori e da una rinnovata forza per essere a queste fedele. Ogni grazia ben corrisposta apre le porte a che Dio ne conceda molte altre; e chi, su questa Terra, rinuncia a corrispondere a una grazia, corre il terribile rischio di chiudere le porte a quelle venture. Probabilmente anche a quelle che devono condurlo alla Beatitudine eterna…


È importante sottolineare, infine, che il premio è infinitamente superiore allo sforzo che i servi hanno fatto: “Prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Per un povero mortale che se ne va da questa vita, l’entrare in Cielo, il vedere Dio faccia a faccia, il possederLo, amarLo e godere della sua essenziale felicità è un qualcosa di inimmaginabile e molto al di sopra di qualunque merito!


Il servo che nasconde il talento


24 “Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: ‘Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; 25 per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo’”.


Il comportamento di questo “servo malvagio e infingardo” è scioccante e degno di ogni biasimo, soprattutto se comparato con quello dei servi “buoni e fedeli”. Invece di esercitare la sua funzione in modo serio e responsabile, egli nasconde il talento, guidato da una paura peccaminosa che niente ha a che vedere con il timor reverentialis – timore reverenziale – delle anime virtuose.


Durante l’assenza del padrone, fugge dal compimento del suo dovere e, quando è chiamato a regolare i conti, si rivolta contro di lui. Per giustificare la sua mancanza, oltraggia colui che avrebbe dovuto servire, accusandolo di essere ingiusto: “So che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso”. La sua attitudine si erge, così, a paradigma del comportamento dei peccatori che cercano di giustificare le proprie mancanze rivoltandosi contro Dio e contro gli altri. Non riconoscono mai le loro colpe; tutto serve loro come scusa per la loro cattiva condotta.


Sottilizzeranno che è molto difficile salvarsi, perché poche sono le persone che ottengono il Cielo, o affermeranno: “Le mie passioni sono troppo vive…”, o: “Il mondo è così corrotto…”. A nulla servirà consigliarli a fare uno sforzo maggiore per domare le loro passioni, nel caso esse siano troppo forti; né raccomandare loro la fuga dalle occasioni che li mettono in grave rischio. Infatti questi peccatori non cercano di correggersi ma, come si è già detto, trovano sempre ragioni per giustificare le loro cattive opere.


La risposta del padrone


26 “Il padrone gli rispose: ‘Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 27 avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse’”.


Il padrone non si preoccupa di confutare le affermazioni del servo infedele, perché l’offesa rivoltagli è talmente senza fondamento da non meritare risposta. Al contrario, va direttamente al punto essenziale del problema, rivolgendogli l’accusa.


Il castigo


28 “‘Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 29 Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. 30 E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti’”.


Parabola dei talenti

La condanna del “servo malvagio e infingardo”, contenuta in questi versetti, ci mostra quanto terribile sarà il supplizio dei peccatori nel Giudizio Finale. Quel giorno, i loro falsi ragionamenti saranno smascherati davanti a tutti ed essi sentiranno la più viva vergogna. I doni ricevuti gli saranno strappati e consegnati ad altri, provocando in loro una invidia e un’amarezza tremende. Quello che durante la vita avevano disprezzato apparirà davanti ai loro occhi in tutto il suo valore, arricchito da Dio e posto nelle mani di altri che hanno saputo utilizzare meglio le grazie ricevute.


A questi lancinanti dolori, si unirà l’umiliazione di vedersi condannati e scagliati nei terribili tormenti dell’Inferno, a proposito dei quali, per mancanza di spazio ci ripromettiamo di parlare in una prossima occasione.2


V – Medita sulla tua fine


Meditare sulla parabola dei talenti ci induce, come vediamo, a riflettere sulla serietà con cui dobbiamo portare avanti tutte le nostre azioni. Balza agli occhi come questo ci arrechi benefici straordinari.


In questa parabola Gesù ci insegna anche a non appropriarci mai di nulla. Sia che si tratti di un dono gratuito, sia che si tratti di un beneficio conquistato con il proprio sforzo, tutto è di Dio; da Lui tutto riceviamo e a Lui appartiene quanto facciamo, perché perfino le nostre capacità personali e il nostro stesso lavoro sono stati creati per la sua gloria. La parabola dei talenti ci invita, in maniera forte, a volgere costantemente lo sguardo sul nostro fine ultimo, che è Dio, come al giorno in cui da Lui saremo giudicati. “In tutte le tue opere ricordati della tua fine e non cadrai mai nel peccato” (Sir 7, 36), dice la Sacra Scrittura. Se così procediamo, avremo abbracciato una via sicura per la nostra salvezza eterna!



1) Un interessante approfondimento su questo tema può essere trovato nel capitolo XV di RODRIGUEZ Y RODRIGUEZ, OP, Victorino. Estudios de antropologia teológica. Madrid: Speiro, 1991, p.329-354.


2) Una viva descrizione dei tormenti riservati a Santa Teresa di Gesù nell’inferno, nel caso ella avesse dovuto essere condannata, possiamo trovarla in: SANTA TERESA D’AVILA. Libro de la vida. C.XXXII. In: Obras Completas. Burgos: El Monte Carmelo, 1915, t.I, p.263-266.


Estratto dalla collezione “L’inedito sui Vangeli” da Mons. João Scognamiglio Clá Dias, EP.

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